di Flavio Saltarelli
Sabato 6 aprile. Sono le 5,40’, Cervinia ancora dorme trapuntata di luci. Il canalone di Vofrede con le sue inquietanti cornici incombe su di noi. Un budello nero che scende dallo Chateau des Dames (3.488 slm), 35 gradi di pendenza media. Saliamo di buona lena alla luce delle frontali per cercare di uscire dalla parte più ripida prima che il sole decida di tirare lo sciacquone, come ci ha consigliato così il mitico skialper Denis Trento.
Francoise Cazzanelli, celebre e fortissimo alpinista che vive ed opera a Cervinia, ieri ha confermato ad Omar che le condizioni in loco sono impegnative, ma si può fare.
Omar batte traccia da par suo. Le zeta che restano sul pendio dietro di noi sono perfette. Cerca di addomesticarlo, per quanto possibile. Giammaria, Andrea, Maurizio, Ivano ed io lo seguiamo tentando di essere veloci. Passati i 3000 di quota le inversioni si fanno meno impegnative. Un ripidissimo traverso su un pendio gonfio di neve ci aspetta; passiamo leggeri, nonostante i ciclopici zaini, con passo “felpato” per non svegliare la tigre che può dormire sotto il bianco. Siamo così sotto il colle dello Chateau des Dames. Omar decide che l’unico modo per limitare i rischi valanghe è passare su una bastionata di roccia. Sale con piccozza e ramponi con delicatezza, come camminasse su un bancone di una cristalleria. Passa, mette una corda fissa per noi. La ancora legandola agli sci conficcati nella neve, come corpo morto. E’ un cordone ombelicale per noi. Ultimo sale il meno alpinista, cioè io.
Dal colle (3.300 slm) il Cervino sembra un piccolo diamante, ne esce solo la punta. Rimettiamo gli sci e giù verso la Valpelline. Sole abbacinante, firn, nessuna traccia. In to the wild, the white wild. Si scia su velluto bianco, ricamando l’effimero, cercando le radici dei nostri sogni.
Rifugio Prarayer (2000 slm). Peccato non potersi fermare in questo splendido angolo di Val d’Aosta. In questo lindo rifugio. Il “dovere” ci chiama, si ripella. Ancora bianco così luccicante da far quasi male: quasi 900 metri di dislivello raschiando il barile delle energie e siamo al primo nido d’aquila, il Rifugio Nacamuli (2.880 slm) al Col Collon. Sono le 17. Abbiamo superato circa 2.300 metri di dislivello positivo.
Si dorme con i vestiti umidi addosso, con il duvet ed il cappuccio in testa sotto le coperte, dopo aver chattato con casa grazie al wifi satellitare.
Domani è un altro giorno. Un altro giorno in cui mi laverò solo strofinandomi con la neve. Un altro giorno in cui metteremo in gioco noi stessi per tentare di fissare un percorso di scialpinismo che potrebbe divenire una “haute route” più bella, e sicuramente più selvaggia, della celeberrima “Camonix – Zermatt”.
Domenica 7 aprile. Le spalle si sono abituate allo zaino, al fardello che rischia di farmi perdere qualche centimetro della mia già scarsa altezza, un fardello che ormai fa parte di me. Meteo variabile, ma ottima visibilità. Si riparte.
Approdiamo alle 8 al Col Collon (3114 slm). “Hinc sunt leones”, da lì in poi una giornata di ghiacciai, in un ambiente di alta montagna che potrebbe essere extraeuropeo, mai scendendo sotto quota 3100, sullo spartiacque del Vallese. Superiamo il Col du Mont Braoulé (3.213 slm.). Per farlo sci nello zaino, ramponi ai piedi (per quanto mi riguarda) e piccozza in mano, con le suole degli scarponi di Ivano sopra il naso, con le mie sopra quello di Andrea. Poi risaliamo il Grande Arréte (3350 slm.): valli, altopiani glaciali si susseguono senza soluzione di continuità ovunque possa vedere. Proseguiamo, transitando su ponti di neve, con Omar Oprandi, guida del Trentino con un passato d’indiscusso campione di skialp, che apre la fila.
Finalmente il Col di Valpelline (3.568 slm), dove il Matterhorn e la Dent d’Herens sgomitano per affermare la loro supremazia. Siamo nel luogo ritenuto da Walter Bonatti e Bruno Detassis nella loro prima integrale traversata delle Alpi con gli sci come il più bello dell’intero arco alpino insieme alla balconata davanti alle Tre Cime di Lavaredo. Me lo riferì Bruno, tanti anni fa, davanti ad un bicchiere a Campiglio.
Panorama che vale una vita, dunque, ma non ci basta, puntiamo al vertice della nostra skyline, alla Téte du Valpelline (3.800 slm). La raggiungiamo sci ai piedi. Andrea, Giamma ed io ci guardiamo negli occhi. Questa è per Camillo; il nostro Camillo, impegnato a scalare una montagna ben più ardua: ritornare alla vita.
Tete Blanche (3.724 slm), nemmeno un mese fa qui morirono in sei. Si allenavano per la mitica Parigi-Dakar dello scialpinismo, la Patrouilles de Glacier. La bufera non ha dato loro scampo.
Transitiamo in silenzio, riconoscendo il luogo più volte visto sui tg. Ora si scende verso Zermatt: seracchi azzurri, cattedrali di ghiaccio, seracchi neri tra cui passare veloci prima che decidano di lasciarsi andare. Ponti di neve, pinnacoli gotici. Sembra di essere sul set di Frozen, dice Andrea, il documentarista che sciando cerca anche di girare immagini per un film che racconti il tutto. Peccato che il drone che porto nello zaino non possa essere liberato per il vento che oggi non ci dà tregua.
Un traverso a 50 gradi aggrappati alle lamine degli sci, sotto un salto di roccia di almeno 200 metri; un traverso dove sbagliare non è ipotizzabile. Blocco gli attacchi in posizione di “no sgancio” e seguo per primo Omar in derapage. Lo raggiungo e… quando capisco dove sono passato temo per gli altri in quanto, con il mio transito, la neve di tenuta se ne è andata e resta solo ghiaccio nero. Gli dei del ripido ci assistono. Superiamo anche questo.
Omar ci guida come Arianna in un dedalo bianco.
Ore 18, dopo 11 ore di attività e circa 2100 m. di dislivello positivo, arriviamo alla Schobihutte (2.700 slm), il nido d’aquila svizzero in cui dormiremo posto su un’incomparabile balconata davanti alla tetra nord-ovest del Matterhorn. Dormiremo sì, dopo una cena a base di acqua calda travestita da minestrone e di un pastone per galline travestito da… al prezzo di circa 130 euro a cranio.
Ancora una notte senza lavarsi nemmeno le mani, quasi costretti ad indossare i ramponi per raggiungere il “bagno” posto sul pendio innevato sotto il rifugio.
Domani è un altro giorno. Per fortuna.
Lunedì 8 aprile – Approdiamo sopra Zermatt. Le piste si vedono lontane. Le nostre solette oggi non sono però fatte per seguirle, ripelliamo per l’ultima salita ed iniziamo a strusciarci con la più iconica parete del Cervino, la nord. Risaliamo un vallone fiabesco, grotte di ghiaccio all’imbocco del bacino glaciale. Gianmaria, nonostante un ginocchio in disordine, scatena il fotografo che alberga anche in lui. Nel mirino la cima Furgghorn (3.451 slm). La stanchezza dei giorni prima si fa sentire. Sole, caldo, maledetto zoccolo di farina sotto le solette degli sci. Mi alza di una spanna.
Raggiungiamo il Furgghorn solo grazie al forte Maurizio che si sobbarca l’ingrato e lodevole compito di fare traccia. Lui approda direttamente in vetta con gli sci aggirando la cuspide finale, io, indeciso per la presenza di un accumulo di neve sul versante nord, scopro in me un alpinista che non sapevo vi abitasse e, rompendo gli indugi, tolgo gli sci, li ancoro e apro sul versante est a colpi di piccozza una breve ma ripidissima via di neve fino alla cima. E’ l’apoteosi, ci abbracciamo: il cerchio si è chiuso. Abbiamo rincorso noi stessi per tre giorni attorno al Cervino – da quanto registrato dal gps di Gianmaria per 77,93 chilometri – ed ora ci siamo raggiunti, davanti alla est dello stesso Matterhorn, la “pietra filosofale” della nostra Haute Route, la montagna più iconica delle Alpi e forse del mondo.
Una breve sciata e siamo al Rifugio Teodulo sulle piste di Cervinia.
Entro, mi guardo allo specchio: mi sono conformato ai ghiacciai appena attraversati, anche io ho nuovi crepacci sul viso incrostato da crema antisole rappresa. Ma le rughe sono anche le firme delle emozioni che ho vissuto. Dopo tre giorni che non mi lavo nemmeno le mani, dopo tre giorni che fagocito la vita aggrappandomi ora alle lamine degli sci, ora alle punte dei ramponi, passando leggero sui crepacci e veloce sotto i seracchi, dove tutto è vero perché non puoi sbagliare, dove tutto è vero perché non puoi ingannare nemmeno te stesso; dormendo per terra, pensando forte a chi ti aspetta a casa e vorresti fosse con te, anche se sai che è meglio così; mangiando nello stesso piatto con chi ha deciso di volare con le tue stesse ali, ho capito ancora una volta che la fatica non esiste quando il cuore comanda e che le rughe diventano la carta geografica delle emozioni che abbiamo tatuate sulla pelle; quelle stesse emozioni che a 61 anni spingono a mettere sempre più vita negli anni che restano. Alla prossima.
Flavio Saltarelli