Israman 113, il mio primo appuntamento “agonistico” dell’anno è saltato. Non perché la gara sia andata male. Semplicemente perché non sono partito: la notte prima dello start forse perché ho dormito poco, forse per la tensione di una gara che non conoscevo, o forse perché banalmente stavo male, ho cominciato a sudare freddo. Mi sentivo la febbre addosso. E non riuscivo a scaldarmi.
La sveglia, come al solito, era fissata presto al mattino, per riuscire a fare una buona colazione prima di indossare la muta. Alle 4.30 puntuale ha suonato. Ho provato a tirarmi giù dal letto, ma non stavo in piedi: mi tremavano le gambe. Da lì a due ore, alle 6.37 per la precisione, sarei dovuto entrare in acqua. Tuffarmi con la muta davanti al mare di Eilat, Mar Rosso, che è più caldo dei nostri mari in questo periodo ma è pur sempre acqua. Il solo pensiero di affrontare quella fredda esperienza, più che la gara in sé, mi ha fatto desistere dai miei propositi. Ho fatto fatica ad accettare l’idea di non partire. Si fa sempre fatica ad accettare una sconfitta, piccola o grande che sia. Un appuntamento che avevi preparato nei lunghi allenamenti le settimane prima – tanto lunghi in verità non sono stati perché, causa freddo, le uscite in bici sono state davvero poche – ma così è. Mi sono rimesso sotto le coperte. Ho cercato di scaldarmi in qualche modo, di allontanare la sensazione di freddo che mi inseguiva dalla sera prima e non ne voleva sapere di andare via. Mi sono rannicchiato sotto il piumino non prima di aver mandato un WhatsApp ai miei compari di ventura, che recitava più o meno così: “Ciao ragazzi. passata nottataccia: sudavo freddo sotto le coperte. Non se x il mangiare o se x influenza. Mi sa che getto la spugna prima di cominciare. Vedrete una bici sola nella zona cambio. Buona fortuna a chi gareggia”. Fine della storia.
L’Israman è la più importante gara di triathlon di Israele. Si svolge, come detto, a Eilat, nell’estrema punta a sud di Israele, a fine gennaio. Un lembo di terra che dà sul Mar Rosso, dove da un lato vedi il confine con la Giordania. E dall’altro, a pochi chilometri di distanza, l’Egitto. Sembra un pezzetto di Florida. Miami Beach piantata nel mezzo del Mar Rosso. Un’oasi di Occidente, grandi alberghi, palme, mall e fast food, circondata dal mondo arabo, dal mare e dal deserto. L’Isramen si svolge su due distanze (la distanza ironman e la distanza mezzo-ironman), ed è una gara dura perché la parte in bici si dipana dietro la città costiera, lungo la strada 16 che risale il deserto del Negev. Paesaggio lunare. Colore pietra. Natura selvaggia. Salite e freddo. Si parte e subito girato dietro all’Aeroporto di Eilat, non appena si esce dalla città la strada comincia a salire con pendenze da Giro d’Italia che superano in alcuni tratti il 10%. Il percorso è reso più duro dai venti che in questo lembo di Israele spesso si fanno sentire forte e dal freddo che in quota – dal livello del mare si arriva a circa i mille metri – si sente e come se si sente sotto il body leggerissimo da triathlon. Tutti aspetti che rendono questa gara davvero unica e “tosta”. E che, alla fine, hanno contribuito a farmi desistere prima di cominciare, lasciando un personale conto in sospeso con questa gara che prima o poi metterò a posto.
Non è finita qui. Una volta terminata la frazione in bici comincia la corsa a piedi. E si fanno i primi 13 km, sia della mezza maratona per chi come me – circa 800 persone – era iscritto al mezzo, e sia della maratona per i 250-300 audaci iscritti al lungo – tutti in discesa. Con delle rampe che vanno all’ingiù e mettono a dura prova i garretti e le giunture dei poveri malcapitati triathleti.
Insomma, la medaglia da finisher di questa gara, per tutti questi motivi, significa più di qualcosa. Un po’ come l’Elbaman, Embrun o altri ironman di questo genere. Gli italiani, nonostante il sottoscritto, si sono ben comportati. A partire dai pro. Massimo Cigana, davvero in palla alla prima uscita stagionale, è arrivato secondo a 4:35:43 – con questi parziali: 1900 swim in 31 minuti e 18 secondi, 90 km bike con 1900D+ in 2:42:10 e la mezza maratona in 1:22:14 – correndo velocissimo nonostante, mi ha confidato all’arrivo, un problemino intestinale in agguato che lo ha tormentato per tutta la frazione, ed è arrivato alle spalle del fenomeno americano Ben Collins che vince mezzi ironman in giro per il mondo come se mangiasse noccioline, recuperandogli rispetto alla prestazione dello scorso anno circa 20 minuti. Una performance che fa ben sperare per la stagione del campione veneziano, ormai tra i veterani del circuito élite, ma sempre fortissimo con tempi da ragazzino. Seconda anche Martina Dogana(che ha chiuso in 5:28:41), la fortissima Martina per la terza volta all’Israman, che ha vinto questa gara una volta ed è arrivata seconda lo scorso anno, non è riuscita a far meglio dell’ex modella Usa convertita al triathlon, Jenny Fletcher (ma perché non si fanno i controlli anti doping?), nonostante ce l’abbia messa tutta. Questi i suoi parziali: 00:32:41, 03:25:22 e 1:30:37. Martina è stata penalizzata dalla parte in bici dove non ha spinto come avrebbe potuto, causa forse di un ritardo nella preparazione. Tra gli age group, altri italiani si sono distinti. L’altoatesino Urbano Ferrazzi è stato primo di categoria nei 50-54 con 5:28:44, buona prestazione anche di un altro azzurro, Sanwald Oliver (%:46:06). Prima di categoria anche l’italiana Silvia Tabacco (6:15:08)
E poi, il Diablo, Claudio Chiappucci che ci ha accompagnato durante questo viaggio assieme a una delegazione di giornalisti triathleti guidata da Matteo Gerevini, organizzatore del Challenge Venice. Il Challenge Venice che quest’anno arriva alla sua seconda edizione, è una delle più belle gare di triathlon lungo italiane. Gara resa davvero unica dalla partenza che avviene dalla città lagunare con il centro storico di uno dei posti più belli del mondo alle spalle, con una frazione di nuoto molto veloce (è un drittone senza onde da Venezia a Mestre) e da una bici perfetta con strade chiuse durante tutta la gara, praticamente tutta in piano. E la frazione di corsa nel Parco di San giuliano con uno strappetto che rende più dura l’impresa per finire questo ironman italiano. Challenge Venice è gemellato con Israman: per questo motivo siamo stati invitati a Eilat. E assieme ChallengeVenice e Israman hanno creato una speciale classifica, TriInvictus, il “triathleta invincibile”, per chi correrà tutte e due le gare. Gli israeliani che dovrebbero cimentarsi per il lungo a Venezia sono già una 40ina. L’appuntamento con il ChallengeVenice è fissato per l’11 giugno. Sarà di sicuro un bel giorno di sport. Ma torniamo a El Diablo. La cosa forse più bella per me di questa settimana sportiva, a parte il forfait della gara, è stato il giorno prima quando con Chiappucci siamo andati a provare i primi chilometri del percorso in bici. Non so se avete presente il personaggio. Beh, per un appassionato di ciclismo trovarsi a pedalare con uno dei mostri sacri di questo sport non è mai banale. Il Diablo, nonostante gli anni, è sempre il Diablo. Testa bassa, appena la strada sale si alza sui pedali e scatta. E’ una sorta di istinto scritto nei suo geni. Non so. Qualcosa di atavico che fa da sempre e che continua a fare. Così è stato per quella passeggiata pre-gara insieme. Solo che io non sono Indurain. Un tormento. Con lui che rilanciava e io che mi staccavo. Poi piano piano cercavo di rientrare e quando ero lì per prendergli la ruota, lui ripartiva a doppia velocità. E’ stato divertente. Chiappucci, della nostra delegazione italiana, è stato l’unico a onorare la gara israeliana perché gli altri due soci giornalisti – Carlo Brena e Alberto Fumi, iscritti alla staffetta – non sono riusciti ad arrivare in fondo. Uno perché ha rotto la bici in salita (che potenza Alberto) e l’altro perché si è mezzo strappato un polpaccio correndo a più non posso in discesa… Chiappucci era uno dei tre atleti che formava la Staffetta della Pace, assieme al nuotatore olimpionico israeliano Guy Barnea, di fede ebraica, e alla podista israeliana Haneen Radi, di religione islamica. I tre hanno vinto la gara dell’Israman113 in staffetta.
Tuttavia il momento più bello per tutti noi, a parte la gara è stato all’indomani, a Tel Aviv. Matteo Gerevini nelle sue tante vite ha organizzato granfondo di ciclismo in giro per il mondo, tra Stati Uniti e Israele. In Israele qualche anno fa aveva portato la Granfondo Italy, che ha avuto un buon successo. L’aveva organizzata assieme a un amico imprenditore, appassionato di sport, Shay Rishoni. Shay quest’anno compie 50 anni. Ha una bella famiglia e una bella casa vicino al mare di Tel Aviv. E’ un Ironman, anzi un Israman perché ha concluso i 3,8km di nuoto, 180 di bici e i 42 di corsa nell’edizione del 2011 del triathlon israeliano. Sei anni fa. Poi si è ammalato. L’anno dopo, nel 2012, con la famiglia è andato a Londra per seguire le Olimpiadi, nonostante pochi mesi prima gli avessero diagnosticato una terribile malattia: la Sla. Le sue condizioni in questi anni sono progressivamente peggiorate. Ora Shay è completamente immobile. Respira grazie a una macchina a cui il suo corpo, divenuto simile a uno scafandro da subacqueo, è legato. Ma è lucido, la sua mente è viva e lucidissima. Parla con gli occhi Shay, utilizzando il video di uno speciale computer che ha sempre davanti a sé, e dove grazie a un software dedicato, muovendo le palpebre digita le parole, naviga su internet: è in contatto con il mondo caldo di chi gli è accanto e con quello virtuale. (questa la sua pagina Facebok a cui potete aggiungerlo come amico https://www.facebook.com/shay.rishoni?fref=ts ). Shay sa che non ne ha per molto ancora. E spera di riuscire a vedere i suoi figli crescere. Siamo stati a salutarlo. C’erano alcuni amici. La moglie aveva preparato un super aperitivo per gli amici italiani. Con noi c’era anche quel diablo di Claudio Chiappucci che ha autografato a Shay una maglia di Finisher del Challenge Venice. Ci siamo scambiati battute, abbiamo parlato, scherzato parlando con lui con gli occhi e attraverso il computer. E’ stato un momento molto intenso. Di commozione. Di famiglia. Quasi sacro. Con l’essenziale che capisci in un attimo è più importante di tutto il resto, le preoccupazioni, i pensieri, le cose vane delle nostre vite quotidiane. Tutti quanti siamo usciti da quella stanza trasformati. Come se avessimo vissuto un momento bellissimo, spirituale. Molto più, per dire, della visita di Gerusalemme e dei suoi luoghi religiosi. Un momento sacro. Di persone, di legami, di amore agape, il motore che muove tutte le cose, anche nei momenti più duri come per la terribile malattia di Shay. Un momento che resterà per sempre impresso, stampato nei nostri cuori. Shay tra qualche settimana parteciperà alla Maratona di Tel Aviv, con una speciale carrozzina e un gruppo di amici podisti per raccogliere fondi per la ricerca contro la Sla. Su Facebook il giorno dopo la nostra visita ha postato una foto di gruppo. Con una frase che è il titolo di un film di Benigni di qualche tempo fa: “La vita è bella”.
Forza Shay. E grazie. Per sempre.