La partenza è fissata alle 6.30 di mattina. Se ci pensi razionalmente, la conclusione più naturale che ti viene da fare è: non posso riuscirci, non ce la posso fare, così presto, a buttarmi in acqua all’alba dal centro di Venezia, e cominciare a nuotare, nuotare, fino alle piccole luci che si intravedono all’orizzonte a Mestre.
E poi continuare ancora, tutto il giorno, in bicicletta prima, lungo la pianura veneta, per 180 chilometri, come andare da Bologna a Siena pedalando, da solo, senza succhiare il vento e la ruota a qualcuno, ammazzando il tempo e le zanzare, per non pensare alla fatica. E, infine, sgranare gli ultimi bricioli di forza, lentamente come un lungo rosario, correndo una maratona nel parco di San Giuliano, con la laguna e i campanili di Venezia sullo sfondo a farti compagnia. Signori e signore: questo è il Challenge Venice. Ed io sono uno degli 800 che stamattina sarà al via. Un triathlon lungo per uomini e donne d’acciaio. Dicono che non si possa chiamare ironman, perché quelli sono di un’altra parrocchia. Ma è proprio un ironman il Challenge Venice, e che ironman! con la cornice di uno dei posti più belli del mondo.
Per Venezia è la prima edizione di una giornata che si preannuncia indimenticabile. Per me è il secondo appuntamento con un ironman. Il mio obiettivo è lo stesso di sempre: non morire d’infarto. Certo, cercare di dare il mio massimo. E soprattutto mettermi al collo la medaglia di finisher, godendo per tutte le sensazioni che verranno. Sapendo che poi, per i prossimi sei mesi, avrò una tale adrenalina in corpo da riuscire ad affrontare tutto, ma proprio tutto della vita quotidiana, controvento, senza paura.
La sveglia suona alle 3 di mattina. Sì perché prima di una gara del genere bisogna fare il pieno di calorie e mangiare e mangiare. E poi avere il tempo per digerire e scaricarsi. La zona cambio con le biciclette è al centro del parco di San Giuliano, quello dove passa la maratona di Venezia al 30esimo chilometro. Da lì, sul prato, quando è ancora notte, ci troviamo per sistemare le ultime cose nelle sacche per le fasi di corsa e di bici. Ci muoviamo tutti come cavallette nella notte. Timorosi e un po’ addormentati ma coscienti che quella che sta per cominciare non sarà una giornata come le altre.
Nel parcheggio di fronte ci aspettano gli autobus che ci porteranno fino a Piazzale Roma, a Venezia. Dove finisce il mondo come lo conosciamo, quello che si muove sulle ruote. E comincia il mondo della città lagunare, con i suoi tempi, i suoi ritmi. Il traffico nei canali e nelle calle ma di barche e traghetti.
Non sono ancora le sei quando scendiamo dai bus. Non è ancora chiaro. Con le sacche sulle spalle, molti con le mute già indossate, sembriamo un esercito silenzioso di pinguini che avanza a piedi verso il centro della città. Qualcuno parla per ingannare l’attesa, molti sorridono. E comincia a rischiarare. Incontriamo le persone che escono di casa presto per andare a lavorare. Un controllore delle Fs, qualche ragazzo con il trolley va alla stazione, due ragazze con lo zainetto che ci salutano. La città si sta svegliando. E noi stiamo entrando nella sua pancia. Chissà che sensazione deve essere per un americano, e ce ne sono tanti, camminare scalzi per queste calle piene di storia all’alba, con la muta addosso e una sacca sulle spalle. Dopo una 15ina di minuti arriviamo all’Università Ca’ Foscari. Ritrovo e punto di partenza del Challenge Venice. I bagni sono tutti occupati. C’è una lunga fila. Un classico. Ci si ritrova nei corridoi dell’università per e nell’atrio esterno per gli ultimi preparativi. Una pacca sulle spalle, uno sguardo e un sorriso per ingannare il tempo e forse la paura. Sono le 6.30 e siamo pronti. La scena successiva è forse la cosa più bella della giornata, quella che mi rimarrà impressa come memoria visiva: siamo tutti allineati in un lungo corteo: uomini pinguini con le mute e le cuffie colorate. Davanti ci sono gli elite, poi le donne e poi via via gli age group, i vecchietti come me, divisi per categoria. Nessuno scalpita per passare avanti. Nessuno finge. C’è una strana euforia nell’aria mista a timore. Accanto a noi le vestigia di uno dei posti più antichi di Venezia, alle Fondamenta di San Giobbe, nel sestiere di Cannaregio, sede del Campus di studi economici di Ca’ Foscari. Il mare non lo vediamo. Siamo nell’atrio del palazzo tutti in fila. C’è una L da percorrere fino all’enorme portone secentesco che dà all’esterno. Ma sentiamo la musica. Parte Pavarotti, nessun dorma dalla Turandot di Giacomo Puccini. E al grido di “Vincerò, vincero vi-n-ce-roooo”, con gli americani che hanno quasi un orgasmo in questo brodo tra laguna e antichi palazzi, ci avviciniamo al nostro destino di fatica e di vittorie, di speranze e di attese. Oggi ognuno ha qualcosa da offrire. Ognuno ha una sua sfida personale da vincere. Piccola o grande che sia. Hanno tutte lo stesso valore. Il valore della forza che vince sulla fragilità e sulla fatica. Non c’è più tempo per pensare. Via, si va.
Prima di gettarmi in laguna guardo in alto. Un attimo per orientarmi. Vedo il Ponte della libertà, che ho fatto tante volte alla fine della maratona di Venezia, l’inizio dell’inferno per chi ha mai fatto la bella 42km veneziana. Questa volta lo percorrerò, ma dal mare, lungo una linea retta disegnata dai legni di segnalazione piantati nel mare, che incontriamo sulla nostra destra. Passando accanto all’isola di San Secondo, e poi avanti, giù e ancora giù, fino all’isolotto di San Giuliano che ha una forma un po’ più allungata: lì sarà l’arrivo. Comincio a nuotare da subito facendo attenzione al movimento e a spingere. L’acqua è calma, non ci sono onde, non è chiara ma si va che è un piacere. Sento a ogni bracciata la spinta in avanti e riesco, grazie al fatto che non c’è mare, a stendere le braccia e ad allungarmi. Mi sembra di andar bene. Prima di me sono partiti quelli con le cuffie bianche e viola, io ne ho una nera. Mi sembra così a naso di trovarmi in mezzo al gruppo dei bianchi con qualche cuffia nera vicino, segno che forse sto andando davvero bene. Avanzo di buona lena. Ogni legno di segnalazione è una conquista. E’ facile tenere la direzione rispetto ai triathlon tradizionali con le boe e il mare (l’ultimo mezzo a Chia Laguna sembrava di stare in un frullatore acceso): qui devi andare sempre dritto e andare e andare. Respiro ogni due bracciate, a volte ogni quattro. Mi sento bene e a un certo punto la frequenza mi accorgo aumenta.
Quando mi capita di incontrarmi con qualcuno davanti più lento, mi sposto di lato e vado per la mia strada. Botte in un triathlon lungo non se ne prendono quasi mai, rispetto agli sprint dove tutti sono concentrati sui secondi. Qui c’è una forma di rispetto per la fatica di tutti: dal primo all’ultimo stiamo facendo qualcosa di grande: non importa se impiegherai qualche attimo in più, ma il rispetto è un pre-requisito. Così si avanza tutti insieme senza grossi problemi. A un certo punto, passata ormai metà della frazione di nuoto, dopo quasi 40 minuti di nuoto, mi accorgo di andare più veloce dell’inizio. Sulla mia destra c’è un tipo in cuffia nera che va al mio stesso ritmo. Cerco di stare accanto a lui. E lui credo faccia lo stesso. E avanziamo di buona lena tanto che intravedo la scia dell’acqua che spostiamo dietro di me. Riconquistiamo posizioni su posizioni, bracciata dopo bracciata. Non è facile andare avanti a questo ritmo per me. Mi sforzo, cerco di restare concentrato per stare attaccato a questo amico sconosciuto incontrato nuotando. La mèta si avvicina in pochi minuti e ci troviamo all’uscita dall’acqua. Nell’ultima parte del percorso il fondale è basso tanto che non si riesce a fare bracciate profonde. Non importa. Mi allargo dalla boa per non stringermi dove vanno tutti e cerco di nuotare con più frequenza e meno a fondo. Arrivato al pontile arancione mi tirano fuori due volontari. Uno sguardo all’orologio: 1 ora e 10 minuti. Cavoli: 20 minuti in anticipo sul mio personale all’Ironman di Zurigo. La frazione di nuoto è stata velocissima per me ma anche molto bella per tutto, lo scenario, l’acqua piatta, Venezia sullo sfondo mentre comincia ad alzarsi il primo sole. Una situazione perfetta, da cartolina o da film.
Recupero la borsa, mi tolgo la muta e dopo poco riparto in bici: alla partenza gli organizzatori raccomandavano di fare attenzione i primi chilometri per l’uscita dal parco con la strada stretta. Io vado, prendo subito velocità con la mia nuova bici da crono appena acquistata che va come un motorino non appena la lanci un po’. Ci sono un paio di viadotti pedonali da attraversare prima di guadagnare la strada asfaltata. Alla curva di uscita di uno dei ponticelli forse perché sto andando troppo veloce, entro storto in una pozza d’acqua e la mia bici scivola: d’istinto faccio uno strano, violento, movimento. Prima da un lato e poi dall’altro. E’ un attimo. Rischio di cadere giù e sposto tutto il peso dall’altra parte. Riesco a stare in piedi ma è successo qualcosa alla bici. Mi sembra di pedalare con una Graziella ora, con il sedile basso tanto che non riesco più a stendere le gambe dopo ogni pedalata. Forse anche la sella si è spostata all’indietro.
Insomma, dopo un paio di km in bici la mia gara rischia di finire già. Certo sono rimasto in piedi ma in queste condizioni è difficile spingere la bici. Immaginate di avere una Ferrari da guidare che a un certo punto resta sempre con la prima ingranata. Beh, una cosa del genere. La velocità di crociera è scesa. Ognuno di quelli che avevo passato in velocità mi ripassa. Chiedo se hanno delle chiavi a brugola, uno di quei kit aggiusta bici tascabili. Niet, No, Nain: arrangiati. A un certo punto, perso nella campagna veneziana, incontro un altro atleta age group, Paul di Manchester – benedetto – che sta armeggiando al manubrio con una chiavetta. Mi fermo e gli chiedo se può prestarmi i suoi utensili. “Ti raggiungo se devi andare vai”. Perdo qualche minuto a rialzare il carro sella e a chiudere bene tutti i serraggi: nella caduta si era abbassato con il mio peso di una decina di centimetri… Paul mi aspetta serafico.
E poi ripartiamo insieme ma lui subito butta giù il rapporto pesante e mi saluta prendendo una velocità maggiore dalla mia. Cerco di concentrarmi: 180 chilometri sono lunghi. E non si può in un ironman lungo sfruttare la scia di chi hai avanti, se sei onesto con te stesso. A dire il vero non tutti lo sono: ho incontrato durante la gara due ragazzi con la stessa maglia blu, credo fossero inglesi o americani, e per tutta la durata della frazione in bici sono andati avanti insieme: un po’ tiro io, un po’ tiri tu. Così è certo più facile tenere una velocità costante. Ma così la gara con te stesso perde di significato. Non è la stessa cosa, non ha lo stesso valore, anche se arrivi prima. Io, come sempre, vado avanti da solo, al mio passo, cercando di dare il massimo che posso, senza barare. A un certo punto, ad esempio, incontro Stefano, un compagno della mia squadra, la Pro Patria di Milano, che è anche lui in gara. Non lo conoscevo. Ci salutiamo mentre lui mi passa. Lo riprendo e mentre passo io ci scambiamo qualche parola. Ma poi ognuno continua la sua strada, al suo ritmo. E’ giusto sia così. Il percorso di oggi prevede una prima trentina di chilometri nella campagna veneta, tra strade ben asfaltate e campagne verdi, nei dintorni di Mestre e poi un circuito di 41 chilometri da ripetere tre volte che passa tra i comuni di Venezia, Meolo, Marcon, Monastier, Quarto d’Altino, Roncade, San Doná di Piave e Musile di Piave, per tornare indietro fino a Mestre per i 30 chilomentri circa percorsi all’inizio.
La cosa che mi ha colpito di questa frazione in bici è che le strade erano perfette. Senza auto e senza pericoli. Con tutti gli incroci presidiati dalle 8 di mattina fino alle 17. E tanta gente assiepata sulle strade e nei paesi che abbiamo attraversato a farci festa, applausi, mani che ti chiedono il 5, insomma siamo stati spinti dall’entusiasmo della bella gente veneta. E dagli alpini che gestivano con il cappello a piuma i ristori. Perfetti. Nei primi ristori ti davano da mangiare panini al prosciutto cotto o barrette, e acqua e Sali. In quelli successivi, quando cominci ad avere le visioni dalla stanchezza i gel e le barrette. Per come è stato organizzato il Challenge di Venezia non c’era davvero bisogno di portarsi dietro niente da mangiare.
La prima parte della frazione è volata via con una buona media, sempre vicino ai 35 all’ora. Nella seconda parte sono cominciati i dolori, nel vero senso del termine, perché mi hanno preso delle fitte alla schiena e non riuscivo più a stare giù, nella posizione da crono. Così ogni tanto, diciamo ogni 20 km, mi fermavo a un incrocio, chiedevo a qualche volontario di tenermi la bici per qualche istante, il tempo di mettere i piedi a terra, stendere la schiena e cercare di allungarmi un po’ facendo stretching per qualche secondo, per poi ripartire. E’ stata un’agonia, più che per la fatica, per la posizione che non riuscivo a tenere: non ho avuto tempo di provarla bene la nuova bici né di adattare la posizione del manubrio e delle bar al mio corpo e ora lo sto pagando. Dicevano che la frazione in bici sarebbe stata facile perché è tutta pianeggiante. In effetti lo è ma personalmente preferisco i percorsi con le salite o i vallonati. Perché dopo le salite ci sono sempre le discese. E puoi tirare il fiato. Qui niente. Sei costretto a far girare sempre la gamba, senza respirare mai, a 80-90 pedalate al minuto, per circa sei ore. Non so se avete presente…
Mi concentro sulla strada ancora da fare. E vado avanti. Ogni tanto mi fermo, mi stendo e poi riparto.
Finalmente, arrivo al ponte di ferro che divide il circuito dal tratto che riporta a Mestre. Dai, ce l’hai quasi fatta. Mi fermo all’ultimo rifornimento, mi siedo un attimo. Prendo un gel mentre un alpino prova a offrirmi del prosecco veneto: mi piacerebbe dai, ma devo fare una maratona. “Ci vediamo stasera, dopo l’arrivo”, gli dico scherzando. E lo ringrazio mentre riparto. Ringrazio lui in cuore e tutti i volontari che in questa lunga giornata di sport e di festa ci hanno sostenuto e aiutato ad arrivare in fondo. Senza il loro lavoro sarebbe stato molto più complesso. Termino la parte in bici dopo poco più di sei ore che considerando la difficoltà a stare sulla bici degli ultimi chilometri è comunque per me un buon risultato: non ho mollato, nonostante il male boia alla schiena, e ho continuato a spingere a 30 all’ora di media. La bici di solito è la frazione dove vado meglio. Oggi per questo problema forse è quella dove ho sofferto di più. Non importa. L’importante è che ora sono qui, al parco di San Giuliano. Sono qui per arrivare in fondo.
In questi lunghi mesi di preparazione ho cercato di prepararmi mentalmente e fisicamente alla corsa. Il mio obiettivo agonistico era migliorare la mia maratona, cercando di correrla tutta: al primo long triathlon a Zurigo era stata durissima, avevo camminato per gran parte dei 42 km. La frazione della maratona non è semplice perché prevede 5 giri da 8 chilometri e mezzo, quasi tutti al sole, con uno strappo in salita a ogni giro. Comincio il primo con l’obiettivo di correre il più possibile. E così faccio, Mi sembra di andare bene, non riesco ad andare sotto i 5.30-6 minuti a chilometro. Ma cerco anche di non andare troppo al di sopra e soprattutto di non camminare. Passa il primo giro. Fa caldo e c’è sole ora (il tempo ci ha graziato perché la giornata avrebbe potuto essere molto più calda). Passa il secondo. A un certo punto incontro un amico triathleta, Franco Ceccanibbi da Cortona, che avevo incrociato alla partenza stamattina. E’ forte Franco e più giovane di me. Ha un personale sull’Ironman di 12 ore e qualcosa. Due ore meno del mio. Ma in questo momento è in crisi nera. Pensa di ritirarsi. L’arrivo sembra troppo lontano. Cammina come un pugile suonato sotto al sole. Lo incito a continuare insieme.
“Dai si va fino all’arrivo, tanto non vinco niente se arrivo prima di te: si va insieme”. Cominciamo a parlare e a corricchiare, Franco sta meglio, come avanziamo, a ogni chilometro, la cotta sembra passare. Piuttosto sono io che dopo il terzo giro comincio a non vedere più la fine di questa giornata e comincio a voler camminare. Manca una mezza maratona. In una situazione normale non sarebbe niente. Due ore di corsa. Oggi è un calvario, lento. Ci sosteniamo a vicenda, con il Cecca parlando tanto, ridendo e soffrendo. E la strada, come diceva la canzone, si apre, passo dopo passo. Arriviamo infine in fondo al nostro Challenge Venice. Dopo 13 ore e 21 minuti di movimento, a braccia alzate. La nostra vittoria è arrivata.
N.B. Per quello che può contare, nonostante la mia preparazione rigorosamente casuale e senza allenatore, nonostante il mio mal di schiena di oggi che mi ha torturato nella seconda frazione, ho migliorato il mio personale sul full distance di quasi un’ora. No davvero, non conta molto. Conta che sono felice di essere arrivato. Felice di avere conquistato la mia medaglia di Finisher in vetro di Murano. Felice di aver corso di più e camminato di meno. E sapete che vi dico, a parte un po’ di male alle gambe, mi sento quasi fresco come una rosa, non prendetemi per scemo. Domani andrò al lavoro. Come un qualsiasi giorno. Con il ricordo nel fisico e nel cuore di aver vissuto una bellissima indimenticabile giornata di sport a Venezia. La mia personale sfida con la fatica l’ho vinta. Mi godo ora la positività di tutte le sensazioni dell’arrivo: energia a mille, ti senti vivo come non mai. Chi le ha provate almeno una volta queste sensazioni sa come ci si sente. E’ stato duro arrivare ma ne è valsa la pena. Se non altro per questo.