SELVA VAL GARDENA – Ore 17,55’. Sono al punto di non ritorno. Chi è causa del suo mal…pianga se stesso. Sono sotto gli archi gonfiabili della partenza. Ho appena salutato mia moglie e mia figlia Angie. Quasi un commiato. Non mi sento pronto, sono certo che non ce la farò a terminare questa avventura. Sto commettendo un peccato di ubris, quello degli antichi greci che volevano sfidare gli dei e facevano una brutta fine. Come Icaro. Qui gli dei sono i jet dello skialp. La “creme” dello scialpinismo race. Ma ormai non posso più tirarmi indietro. Ho rotto le scatole “urbi et orbi” sui social network legando anche questa partecipazione alla battaglia che conduco da anni con la FISI per aprire le aree sciabili – le piste – agli skialper e questa è la gara su pista più famosa del mondo… Ma sarà l’ultimo pettorale della mia vita. In casa non ci crede nessuno. Penso sia la verità: ho 56 anni, vivo in pianura, a Piacenza, faccio l’avvocato civilista e mi fa male la schiena: non a gareggiare; ma a leggere le classifiche finali, tanto il mio nome finisce sempre più in basso, costringendomi a genuflettermi per leggerlo ogni volta che taglio il traguardo.
Anche questa volta – come quasi sempre – si corre non contro gli altri, ma contro i cancelli, le barriere cronometriche che impongono di rispettare stretti tempi parziali di percorrenza per poter procedere nella gara.
Angie ha 20 anni, mi fa assistenza; non l’ha mai fatto, mi spiacerebbe davvero deluderla e finire la mia avventura bloccato dalle forche caudine del cronometro a Corvara, al Pordoi o a Canazei. Fuori tempo massimo per la prima volta proprio all’ultima competizione della mia vita. Sarebbe un amaro epilogo. Stonerebbe, poi, pure raccontarlo su questo blog.
Siamo schierati, pigiati come in discoteca per l’ultimo dell’anno. Facciamo parte di una mandria di esili bisonti in tutina; pronti a scatenare l’inferno per rincorrersi per circa 43 km e 5400 metri di dislivello complessivo intorno al massiccio del Sella; da Selva Val Gardena a Selva Val Gardena, attraversando quattro valli e toccando in successione i quattro celeberrimi passi: Gardena, Campolongo, Pordoi e Sella.
5,4,3,2,1, un colpo di pistola. Non al cuore, ma in cielo. Via.
I primi scattano, noi attendiamo che la mandria si metta in movimento. Il fiume di skialper si muove. La tensione si stempera. Si va. Stefano Forcella è il mio compagno. Reduce da tre Sellaronda finiti a metà classifica, si è fatto ingannare dall’amicizia e si è legato in coppia (n. 348) con me, ben sapendo che dovrà lottare per la prima volta con le barriere cronometriche.
Come sempre la prima mezz’ora è la più dura: si teme essersi coperti troppo; si teme di essersi coperti poco; di non aver incerottato abbastanza i piedi per evitare le vesciche, di scordarsi di trangugiare qualcosa almeno ogni ora; si teme che le pelli non tengano sul ripido, che le pelli non scorrano sui piani, di essere costretti a perdere tempo a mettersi la giacca a vento in discesa quando si scollina sudati fradici; nella notte, ad oltre 2200 metri di quota. Ma tant’è. Bando alle ciance. Full gas. Sbuffo. Oltre soglia.
La prima mezz’ora è la più dura perché tutti partono come se il traguardo fosse dietro l’angolo e bisogna, dunque, barcamenarsi tra la necessità psicologica di non restare tra gli ultimi ed il dovere di non farsi prendere dallo spirito race e spendere troppe energie, rischiando poi di rimanere a secco strada facendo.
Il sole colora di arancione l’orizzonte quando approdiamo al Passo Gardena (2121 slm). Abbiamo impiegato 50’ per superare 900 metri di dislivello positivo. Vorrei fermarmi ad onorare la bellezza dei Monti Pallidi, ma bisogna spellare e lanciarsi verso Corvara. A manetta. Come se non ci fosse un domani. Stiamo sfrecciando (il gps nel mio caso segnerà una punta di 83 km/h) nel tramonto. Le prime ombre della sera rendono la discesa tanto bella quanto irreale. E’ invece tremendamente reale quel ponticello prima di Corvara da imboccare a fuoco. In curva. Svernicio il parapetto e approdo in Val Badia.
Il primo cancello è superato con mezz’ora d’anticipo. Si rimettono le pelli e si riprende. Verso il Passo di Campolongo. Le pendenze in questo tratto sono irrisorie, ci trasformiamo in fondisti. Cerco di “tirare il passo” e, poiché il cuore non è tanto impegnato, riesco a scambiare qualche impressione con Stefano ed a controllare la nostra tabella di marcia, sulla quale siamo addirittura in buon anticipo.
Una ripida salita prima del Bec de Roces ci risveglia. Sono oltre due ore che fatichiamo; devo mangiare. Senza perdere tempo. Mi lancio in discesa; i bastoni sotto il braccio per avere le mani libere e potermi infilare in bocca una barretta. Farlo in salita richiede battiti; fermarsi richiede tempo.
In un amen siamo giù, al Passo di Campolongo (1815 slm). E si ripella. Questa volta l’obiettivo è il Pordoi. E’ una luce all’orizzonte, dove termina la processione di lampade frontali che ci precedono. Ed è una dolce, ma infinita, salita. Stefano mi offre qualche dattero. C’è tempo per ripensare a tutti gli allenamenti che hanno preceduto questa avventura; allenamenti per lo più di corsa, di spinning alla palestra Acrobatic Center, o con gli skiroll sul Monte Penice, seguendo le tabelle del campione di skialp Omar Oprandi, dell’allenatore di sci da fondo Geo Pasquali e di Italo Morandi; i tre amici che mi hanno consigliato e monitorato nel cammino atletico che ha preceduto il Sellaronda. C’è tempo per immaginare quanto sarebbe premiante un percorso permanente di skialp che consentisse questa avventura a tutti, ogni giorno della stagione invernale, in piena legalità. Realizzarlo non impegnerebbe molto, basterebbero poche paline per delimitare le piste da discesa da un corridoio di salita. E c’è tempo per commuoversi per la bellezza di questo universo incantato che attraversiamo nella notte al solo fruscio dello scorrere delle pelli di foca e per pregare. La preghiera quando si fatica aiuta: è terapeutica per l’anima e per il corpo. Un po’ come la fatica. Ed io mi ci rifugio volentieri.
E proprio recitando a mente un’ultima ave Maria arrivo al Pordoi (2240 slm), dove trovo pure l’amico Sandro Sterpini del Soccorso Alpino. Un caloroso abbraccio è quello che ci vuole. Mettiamo così le ultime forche caudine, quelle di Canazei, nel mirino. Sono sudato fradicio, ma non intendo perdere tempo ad indossare la giacca a vento. “A la guerre, comme a la guerre”. Giù a cannone; rimbalzando come una pallina da flipper impazzita da un lato all’altro di piste tirate a lucido dai tanti che ci hanno preceduto. Mollo tutto stando sulle code di Stefano, confidando nelle lamine; confidando in un futuro che è solo quello che illumina la mia pila frontale. E superiamo tante coppie.
E’ incredibile quanto si riesce a guadagnare in discesa quando si combatte nella pancia del gruppo; quando si combatte con concorrenti che magari non hanno alle spalle un passato agonistico, seppure remoto, di sci da pista come abbiamo noi.
E siamo a Canazei.
A Canazei il Sellaronda tocca il suo apice. E’ vera festa, un tripudio di colori, di campanacci di pacche sulle spalle per tutti, di quadratini di crostata ai mirtilli, di the bollente ai frutti di bosco. Mi si riscaldano il sudore congelato sulla schiena e soprattutto lo spirito. Il Sellaronda d’altronde lo hanno inventato qui. E poi, correrlo – come sto facendo io – con i colori e con la tuta dei “Bogn da Nia”, del prestigioso sci club della Val di Fassa, non lascia indifferenti i numerosissimi spettatori che mi acclamano.
Abbiamo ancora due ore e venti per arrivare entro il tempo massimo a Selva. La consapevolezza di farcela fa capolino; e’ energia allo stato puro: si ripella per l’ultimo passo, il Passo Sella (2218 slm). Stefano è un amico, ma è anche uno skialper di grande esperienza. Fa il passo giusto, quello che mi consente di non “strappare” e di non scoppiare. Imbocchiamo la salita del “Lupo bianco”. Un “muretto” di neve rigelata ha bloccato diverse coppie che sembrano Bamby su lago ghiacciato; non ci spaventiamo: una bazzecola, rispetto alle salite della Mountain Attack di Saalbach affrontate lo scorso anno insieme da me e Stefano. I bastoni sono unghie che hanno efficacia se li sai usare bene. Superiamo questi concorrenti e andiamo su, sempre su, fino al Passo Sella, dove resta solo l’ultima discesa: quella antipatica, che porta a Selva; una discesa odiosa perché piatta, perché ti fa racchettare se osi soltanto abbozzare qualche curva o qualche leggera frenata. E racchettare a questo punto è come prendere calci nelle parti basse.
Via le pelli per l’ultima volta. Plan de Gralba scivola sotto le solette e siamo al traguardo. 5 ore e 56 minuti su un tempo massimo di 6 ore e venti. L’abbraccio di Lella ed Angie è al tempo stesso il premio ed il titolo di coda di un lungo viaggio iniziato non so perché, ma finito con la consapevolezza che, a volte, ignorare la logica è premiante; che, a volte, basta crederci ed i sogni si possono realizzare. Nello sport come nella vita.