“Soe la strada de Briénn visénn al Crott dii Plàten
Ai pé de la muntagna gh’è un quajett
Ai tempi del Far West fra Sfrusaduu e Burlànda
Passàven sacch de juta e sigarett”…
Tradotto per i non lombardi:
“Lungo la strada di Brienno vicino al Crotto dei Platani
Ai piedi della montagna c’è un piccolo ruscello
Ai tempi del Far West tra contrabbandieri e finanzieri
Transitavano sacchi di juta e sigarette”…
Le parole della “Ballata del Cimino” di Davide Van De Sfroos, dedicate ai contrabbandieri, alle terre dei contrabbandieri hanno ispirato un gruppo di miei amici, i Salamandra bike team, appassionati di mtb, delle cosiddette ruote grasse, a ripercorrere i sentieri delle “bionde”, tra Svizzera e Italia. Da questa canzone e dalle sue suggestioni è nata l’idea. Un’idea che è rimasta in gestazione per mesi e che si è poi concretizzata con il Cuntrabandé tour 2015: 4 giorni sui pedali tra Alpi Svizzere e italiane, attraverso quattro province – Sondrio, Bergamo, Lecco e Monza – e tante valli.
I protagonisti di questo “film” di pane e pedali e vette sono stati, nell’ordine di apparizione: Gianfranco Ubbiali the president; Paolo Bicego, anima del gruppo di “quelli come noi non mollano mai”, Andrea Lanzavecchia, il saggio, Angelo Ferace, per tutti Anceeelo! compagno di fatica nelle salite impossibili, Enrico Frumento, detto Orzowei, biker sul serio che sulle ruote grasse ha viaggiato lungo il Transalp sulle Alpi tra Germania, Svizzera e Italia, Max Co’, degli amici “Cassinis”, che si allenava in mtb per fare il Mont Ventoux con la bici da corsa (cosa che ha fatto la settimana successiva), Max “Truciolo”, detto il Panta o Pirata ricciolo, quello che voleva arrivare primo e se la giocava con il giovane Lorenzo Guerrini, skirunner e istruttore alpino, seguito dall’ottimo Federico Piccinini, biker, free-climber, che come Alberto Tomba viene da Bologna, dalla pianura, ma si accende non appena si avvicina a una cima, da Luigi Maspero skyalper di poche parole ma di molta sostanza e da Roberto Beretta, architetto prestato a fare da autista dell’ammiraglia e direttore sportivo e portatore di borse di questa stramba combriccola ciclistica.
Ah, dimenticavo. A chiudere il gruppo c’ero io, mi conoscete, amante delle salite e un po’ meno dello sterrato. Preferisco le due ruote da corsa e l’asfalto, farle così le salite, anche quelle più dure. Anche se lo ammetto: con la mountain bike puoi spingerti in luoghi ameni, inaccessibili, lontani da tutto e da tutti. Nella natura vera.
Così è stato il nostro tour di quattro giorni nelle terre dei contrabbandieri. Ci siamo immersi nelle alpi, in valli, discese, valichi, sconosciuti ai più e per questo ancora più affascinanti. Io sono abruzzese. Ho sempre vissuto con le montagne alle spalle, il Gran Sasso e la Maiella, la bella addormentata e la montagna madre che la guarda, come succede per chi vive da queste parti, ai piedi delle Alpi. E faccio fatica a muovermi nella pianura piatta, dove l’orizzonte è una linea retta.
Per dirla con Aldous Huxley, l’autore di Those Barren Leaves (citato dalla bella agenda di Ediciclo “Parole in cammino” a cura di Luca Gianotti): “Mio padre considerava una passeggiata tra le montagne come l’equivalente di andare in chiesa”. Così è per me.
Per questo forse, nonostante la mia poca passione per gli sterrati, non c’è voluto molto a farmi convincere dal mio collega e amico Gianfranco – che ha inventato il percorso con una precisione certosina – a unirmi al gruppo di questi biker scatenati.
Sempre in tema di citazioni, prima di parlarvi del nostro “viaggio”, vi rimando a un’altra canzone di Van De Sfroos, passione dei miei amici lombardi, sempre in tema. Si chiama “Ninna nanna del contrabbandiere”. Fa così:
“Ninna nanna, dorma fiöö
El tö pà el g’ha un sàcch in spala
E’l rampèga in sö la nöcc
Rega la löena de mea fäll ciapà
Prega la stèla de vardà in duvè che’l va
Prega el sentèe de purtàmel a cà”…
Traduzione in italiano, per i non lombardi come me:
“Ninna Nanna, dormi figliolo…
tuo papà ha un sacco in spalla
e si arrampica sulla notte…
Prega la luna di non farlo prendere
prega la stella di guardare dove va
prega il sentiero di portarmelo a casa”….
“Ninna Nanna, dormi figliolo…
tuo papà ha un sacco in spalla
che è pieno di tante cose:
ha dentro il suo coraggio
ha dentro la sua paura
e le parole che non può dire”…
“Ninna Nanna, dormi figliolo…
che sogni un sacco in spalla
per arrampicare dietro a tuo padre…
in questa vita che viviamo di frodo
in questa vita che sogniamo di frodo
in questa notte che preghiamo di frodo”
“Prega il Signore a bassa voce…
con la sua bricolla a forma di croce”…
Ed eccoci al viaggio. Quattro giorni. Trecento chilometri. Gran parte su sterrato e sentieri arditi. Per oltre 6mila metri di dislivello, che vi assicuro fatti sui sassi non sono poca cosa: sono stati come 9mila o giù di lì su asfalto. Siamo partiti da Monza in treno di primo mattino, dalla pianura e siamo arrivati fino a Tirano con le bici e tutto quanto il resto. Da lì abbiamo preso il Trenino Rosso che sale su fino al ghiacciaio del Bernina e da lì inforcando le due ruote siamo partiti lungo i sentieri di montagna lasciandoci tutto il mondo alle spalle. Questo il dettaglio delle tappe per chi volesse riprovarci…
Prima tappa: Il contrabbando
Dal Bernina siamo saliti dalla Valle del Fieno su fino al valico dove c’è una malga alpina che si affaccia sull’Italia, a sud di Livigno, poco dopo il Passo della Forcola. Da lì siamo scesi attraverso un percorso abbastanza accidentato verso Livigno, terra di contrabbandieri e ora di turismo. Un gruppo di noi – c’ero anche io tra i “fortunati” – a un certo punto ha imboccato un sentiero sbagliato: ci siamo ritrovati lungo una stretta via a passare su nevai con le bici, rischiando di scivolare giù nel dirupo. A un certo punto non si riusciva a proseguire oltre, tanto era stretta la via. A fatica, spingendo la bici, per fortuna abbiamo avuto la lucidità di tornare indietro sui nostri passi e di non continuare una via pericolosa senza ritorno. Ritornati al bivio siamo scesi fino al sentiero del fondovalle della Forcola correndo con le bici in mano lungo un ripido sentiero pieno di salti e sassi. Da Livigno, dopo una sosta calorica, abbiamo ripreso a salire verso la Valle Alpisella, a fine giornata. Non è stato uno scherzo. La salita aveva delle pendenze non indifferenti con lunghi tratti – almeno per me – fatti a piedi sullo sterrato rovinato dove si faceva fatica a restare in piedi sui pedali. A spingere come muli la mtb. Siamo passati poi vicini alle sorgenti dell’Adda. La prima sosta, alla fine di una giornata interminabile e faticosissima, l’abbiamo fatta, stanchi ma felici, al rifugio Val Fraele, vicino al Lago artificiale di Cancano. Immersi in un panorama indimenticabile, agli occhi e al cuore (mentre eravamo a cena, sulla carrareccia che porta verso le torri di Fraele, abbiamo visto due cervi giocare indisturbati).
Seconda tappa: Into the wild
Il giorno dopo siamo partiti dalla diga del Lago di Cancano prendendo il sentiero più difficile ovviamente, nello spirito avventuroso dei miei amici pazzi per l’off road. Il sentiero che passa dal Bosco in Piano e poi si ricollega alla strada che dallo Stelvio scende verso a Bormio, poco prima dei tunnel. Da Bormio, dopo un caffè di rito nella piazza centrale, abbiamo fatto la salita (finalmente su asfalto, una variante pensata per me che amo la bici da corsa) che arriva a Santa Caterina di Valfurva. Il giro avrebbe potuto finire lì. Ma non è andata così. Era solo all’inizio. Da Santa Caterina abbiamo preso la salita che porta su fino al Passo Gavia e poi ancora su, poco prima della vetta, abbiamo deviato a destra sul sentiero che va verso la Val di Rezzalo, con pendenze particolarmente accentuate. Per me questo è stato il momento “Paradise”. La giornata era particolarmente bella, con un cielo terso e dei colori mai visti nella grigia pianura padana. Con una natura di inizio estate nel suo massimo splendore. E con quasi nessun segno dell’esistenza dell’uomo (case, masi, cartelli o robe del genere). Niente. Solo verde e cielo.
Arrivati al Passo dell’Alpe, circa 2.100 metri, è cominciato il paradiso nel paradiso, perché oltre a essere in un bel posto è cominciata la lunga discesa (tecnica e impegnativa per gli amanti del fuoristrada) della Val di Rezzalo. Ci siamo sentiti un po’ dei privilegiati a poter godere della bellezza di questa valle sconosciuta, dove si arriva solo faticando. Dopo un po’ di strada, sterrata prima e poi asfaltata, siamo scesi fino a Le Prese, nel fondovalle della Valtellina, poco prima dell’attacco del Mortirolo, tempio dei ciclisti con le ruote lisce. La giornata non è terminata ancora. Tutti insieme abbiamo percorso in gruppo, tentando un trenino a 30 all’ora (in mtb è una velocità di tutto rispetto), con risultati alterni, fino a Tirano e poi a Teglio dove avevamo programmato la seconda sosta. La bella scoperta è stata che Teglio è un posto ameno: colline, vigneti su terrazze, lontane dal traffico della fondovalle. La brutta è che per arrivarci – grazie ad Andrea, il saggio, che ha scelto l’agriturismo l’Antico Torchio – a fine giornata abbiamo dovuto affrontare una rampa da muli con pendenze in alcuni tratti tra il 15 e il 20%. Che fatica!
Terza tappa: La scalata.
La giornata è cominciata ripercorrendo la ciclabile sulla fondovalle della Valtellina per una trentina di chilometri, accanto a gruppi di ciclisti incontrati lungo la strada (era domenica mattina). Gianfranco ci aveva avvisato che sarebbe stata la giornata con la salita più dura, tipo Tourmalet o Galibier. Dalla Svizzera, siamo arrivati nella Valtellina e nella provincia di Sondrio. Ora dovevamo risalire su dal fondovalle fino al Passo Dordona (2mila e passa metri) percorrendo la Val Madre per finire nella provincia di Bergamo, a Branzi, dopo Foppolo, dall’altra parte dell’alpe.
La salita della Val Madre è poco frequentata e poco segnalata dalle guide proprio per la sua durezza. Sono 20 km esatti con una pendenza media del 10% e punte del 16-17 su sterrato, con la gomma che ti rimanda indietro sul polso, la schiena e tutto il resto (lascio i particolari alla vostra immaginazione) i profili dei sassi, dei buchi, delle carrettiere sterrate e delle gettate di cemento nei punti più duri per far salire le jeep quando piove. L’ho fatta tutta con Angelo e con Max Co. Ansimando e pedalando. Una sfida alla gravità. Con queste bici pesantissime e rapporti troppo, troppo agili. All’inizio abbiamo incontrato uno in macchina che ci ha gridato una frase incoraggiante – un po’ come quel verso della Divina Commedia, Canto III, Inferno: “lasciate ogni speranza o coi che entrate”. La frase è stata questa: “Non sapete cosa vi aspetta”. Dopo i primi tornanti abbiamo capito che cosa voleva dire. Aveva ragione. La salita della Val Madre è matrigna più che materna. A metà strada ci sono un paio di km in cui spiana un po’ e si passa vicino a un gruppo di case. Ma dura poco perché poi il sentiero nell’ultimo tratto ricomincia a salire con un fondo particolarmente accidentato. Qui è stato difficile, considerando le pendenze e il rinculo della bici e le forze ormai vicine al capolinea, rimanere in piedi. Indicativo su tutti il video di Paolo al passaggio sul Passo Dordona che vi allego.
Il punto più bello per me è stato quando, nel momento clou della sofferenza per me, quando mi sentivo veramente in uno dei gironi danteschi senza via di uscita, mi sono fermato davanti a una vecchia malga che aveva una scritta sbiadita scritta su un cartello: Vendo formaggi e ricotta di malga. Mi sono fermato, Max ha fatto lo stesso. Una donna ci ha accolto. Io avevo pochi euro in tasca. Lei ha tirato fuori una forma di Bitto stagionata, ancora intera. E senza esitazione l’ha tagliata in due e ce ne ha dato una grande fetta. Nel frattempo è arrivato suo marito che stava armeggiando con il recinto per accogliere le mucche al pascolo. Ci ha offerto del vino nero. E quel formaggio che sapeva di fiori e di tutti i sapori della montagna. Buonissimo. Credo di non aver mai mangiato una cosa così buona.
I due, più avanti, arrivati al rifugio Dordona, mi hanno mostrato la casa in sassi dove mettono a stagionare i formaggi, dopo un passaggio nella vasca della salamoia, lungo le assi in legno che sanno di bosco. Durante l’estate portano sull’alpeggio le mucche, che di giorno in giorno spostano da un prato all’altro. Ogni giorno con il loro latte che sa di fiori e erbe alpine riescono a produrre otto forme di Bitto. D’inverno scendono a valle e producono latte. Solo per questa esperienza è valsa la pena salire fino a quassù.
Quando si è in cima al Passo Dordona, la valle si allarga e offre scorci di bellezza difficili da descrivere a parole. A me hanno ricordato il Col du Galibier, quando finalmente arrivi in alto, dopo l’ennesimo zig e zag della strada che si scontra con le leggi della gravità. Vicino al Passo Dordona si possono ammirare delle trincee della Linea Cadorna, poco battute e molto ben conservate. Risalgono alla prima Guerra Mondiale, di cui ricorre proprio quest’anno il centenario.
Lasciata la provincia di Sondrio e affacciati su quella di Bergamo abbiamo affrontato una lunga discesa su fondo sassoso fino a Foppolo (anche qui con dolori e fastidi che potete immaginare sempre dove) per finire a Branzi, in Val Brembana, il paese subito dopo (dove i concittadini si arrabbiano se appoggi le biciclette vicino ai vasi fioriti). L’ultimo tratto lo abbiamo fatto a velocità molto sostenuta su asfalto (siamo arrivati a 65 km/h con le mtb che in discesa sono molto più stabili di quelle da corsa).
A Branzi abbiamo dormito e mangiato nell’Agriturismo La Baita, un posto fantastico che vi consiglio, dove i due giovani proprietari conducono un allevamento di capre e producono ottimi formaggi, gelati e yogurt davvero sopraffini che ricordo ancora nella memoria dei sapori, come il Bitto mangiato nella malga alpina.
Quarta tappa: Il tappone
E siamo giunti alla fine di questo viaggio. Che è stato forse più faticoso descrivere con le parole che sui pedali. Dove, almeno lì, la fatica è compensata dalla bellezza. Ebbene, il quarto giorno, epilogo del Cuntrabandé Tour, tanto per gradire, il percorso prevedeva ancora km, salite, sterrati, valli e discese (e anche traffico: siamo tornati nel mondo), e il passaggio alle ultime due province, da Bergamo a Lecco fino a Monza. Partenza: lasciamo a malincuore e con la pancia piena l’agriturismo di Branzi e via in discesa giù passando per Piazza Brembana, fino a Olmo al Brembo. Da qui la strada comincia a salire, prima dolcemente, e poi più decisa verso Valtorta. La salitona comincia proprio dal paese di Valtorta e tira di brutto su asfalto fino al piazzale degli impianti di risalita, dove tutti, dopo quattro giorni di su e giù, siamo arrivati sfatti, quasi affranti, ma determinati a concludere la personale nostra gara con la fatica. La strada prosegue attraversando sentieri, e quella che d’inverno è la pista da sci. Continua nel bosco e si inerpica fino su ai Piani di Bobbio, quota 1700, in Val di Corda. Da lì, l’inizio della fine del viaggio e forse anche la “fine” nostra, è stata la tremenda discesa (Ia chiamano tecnica gli appassionati ma è più spezza gambe e polsi che tecnica) fino all’altro lato della montagna, in località Barzio, Valsassina, e il suo spiazzo asfaltato dove d’inverno parcheggiano le auto e ora non c’è niente come un biliardo vuoto. Mettiamo nel mirino Lecco che raggiungiamo attraversando la strada statale dove incontriamo per la prima volta dopo 4 giorni la civiltà e le sue auto.
Dopo Ballabio, tanto per gradire, abbiamo preso l’ultima variante off road che scende a Lecco attraverso i boschi. E fine. Qui il tour è finito per alcuni – tra cui io – alla stazione ferroviaria di Lecco. Per altri amici, i più drogati di mtb, il tour è continuato ancora fino a Monza, seguendo l’Adda fino a Paderno, vincendo la mortale salita del Ponte di ferro e attraverso i traguardi volanti auto gestiti “per fare gli scemi fino in fondo” (citazione del presidente). Davanti alla Villa Reale di Monza la foto di rito a futura memoria.
E’ stato un bel viaggio. E’ stato difficile più che farlo – ho ancora vive le sensazioni – rientrare nella vita quotidiana con tutto il suo carico di briscola che si porta dietro. Come avrebbe detto il contrabbandiere Van De Sfroos: …“Sö questa vita che vìvum de sfroos/ Sö questa vita che sògnum de sfroos / In questa nòcch che prégum de sfroos”. Tradotto per i comuni mortali: …“In questa vita che viviamo di frodo / In questa vita che sogniamo di frodo / In questa notte che preghiamo di frodo”.
P.s. Per il Cuntrabandé tour è stata preparata una maglia ad hoc color verdino, con le tracce del percorso e i simboli delle sigarette e dei liquori passati dai contrabbandieri. Tutti l’abbiamo indossata. Ma, oltre a questa, ce n’era un’altra di maglia, assegnata a fine giornata alla Maglia nera, o Pecora nera, nello spirito del gruppo che è poi quello di Shaun vita da pecora (spezzo una lancia a favore sono un fan sfegatato di questo personaggio da cartoon): meglio un giorno da pecora (vera) che 100 da leoni (finti, sfigati). Ebbene, nelle varie tappe è stata vinta da diversi personaggi, che nella giornata si erano distinti per qualcosa di negativo o divertente (un incidente, sbagliare una strada o farla sbagliare agli altri, arrivare ultimi). All’unanimità però alla fine del Tour è stata vinta da Paolo Bicego, per la simpatia e lo spirito di squadra, guascone: “Quelli come noi non mollano mai”. Grazie a tutti gli amici per il viaggio nelle terre dei contrabbandieri. Alla prossima.
Riccardo