C’ero anche io nel gruppo dei dieci amici arrivati in fondo al Velodromo di Roubaix, dopo i mitici 27 settori di Pavè. Questo è il racconto fatto dal mio amico Maximilian Cellino. Nelle sue parole c’è anche la mia storia e la mia personale sfida-salita davanti al pavè. Un’esperienza indimenticabile ma massacrante per la schiena e le gambe. Buona lettura (rb)
Il primo ricordo della nostra Roubaix è quello del giorno dopo. Nel piccolo e affollatissimo bar di Troisvilles, un paesino che sembra uscito fuori dal film “Giù al Nord”, tiene banco Christian, amico lodigiano di noi del Cassinis Cycling Team, vestito di tutto punto da ciclista: ha appena sconfitto in un’improbabile sfida a braccio di ferro un rubicondo e appesantito tipo locale, ora si beve la birra e si mangia l’enorme piatto di uova che gli hanno offerto. Non parla una parola di francese Christian, ma è al centro dell’attenzione di una piccola folla urlante e sghignazzante, che ha appena visto passare a 45 all’ora i professionisti e che fra qualche ora (tasso alcoolico permettendo) si siederà di fronte allo schermo per vedere l’arrivo della corsa.
Tutt’intorno ci siamo anche noi: in ordine sparso Gigi, Roby, Stefano e Leonardo oltre a me. E c’è anche Dora insieme a Luigi (altro amico Cassinis che alcuni in passato hanno già imparato a conoscere e apprezzare grazie alla sua passione per la bici). In qualche modo facciamo parte della grande festa che accompagna l’evento dell’anno, anche perché siamo tra i rari ciclisti che oggi pedalano in zona. Siamo a oltre 160km dall’arrivo, ma l’atmosfera è davvero incredibilmente festosa: la gente applaude e incita perfino noi che precediamo di un’oretta i professionisti per andare a piazzarci sul primo settore di pavé.
I bambini gridano e ti porgono la manina per battere il cinque, le majorette locali agitano i pon pon, qua e là si sentono gli immancabili sfottò: “dai che siete i primi”, “li avete a un minuto” oppure “state andando nella direzione sbagliata”! Sarà la festa, sarà la giornata meravigliosa di sole, sarà molto probabilmente l’animo non più appesantito dal terrore delle pietre, ma è stranamente questo il momento più bello di un’avventura iniziata qualche mese fa e che il giorno precedente è entrata nel vivo proprio lì a Troisvilles, dove si incontra il primo dei 27 settori di pavé che ti portano dall’inferno fino al paradiso del Velodrome di Roubaix. Quel pavé che noi abbiamo affrontato sporco di fango e che i pro si mangiano sì a oltre 40 all’ora, ma anche in condizioni diverse perché scientemente “lisciato” dal precedente passaggio di almeno un centinaio di auto al seguito (piccola delusione).
Non si racconta facilmente il pavé, perché non esiste niente di simile altrove. Né lo si doma, se non si ha la potenza di certi ciclisti. Ci si prende confidenza però, almeno dopo qualche chilometro, ma senza esagerare perché se ti distrai lui è capace di mandarti a gambe all’aria in un attimo, e non ti chiede neppure scusa. Il martellamento del resto è continuo: gambe, mani, braccia e anche il cervello rischiano di frollarsi su quelle pietre che sembrano essere messe a dispetto. Ma i Cassinis (e gli amici) sanno essere rispettosi, se pur tosti, e procedono dritti verso la meta senza tentennamenti (si fa per dire, ovviamente).
Sotto le nostre ruote passa il settore di Quiévy Saint-Piton, il primo a quattro stelle e cronometrato: lungo i suoi 3,7km si scatena la bagarre vinta con un’azione di forza da Roby. Sfilano in rapida successione altri tratti meno impegnativi solo sulla carta, anche perché in queste zone la Francia è vallonata e i pavé ovviamente la seguono: non ce n’è uno completamente piatto. L’attesa, manco a dirlo, è per la Foresta di Arenberg: il tempio del pavé che viene aperto al traffico soltanto in queste occasioni arriva a poco meno di 100 chilometri dal traguardo in un crescendo di emozioni. La senti avvicinarsi pian piano Arenberg, il settore numero 18: non solo nei cartelli che la indicano, ma soprattutto nella tensione e negli sguardi di chi ti pedala accanto. Non ci giurerei, ma se qualcuno si fosse tolto gli occhiali avremmo probabilmente scoperto occhi molto lucidi.
Non la infiliamo a tutta velocità l’entrata di Arenberg, perché richiamo la truppa Cassinis alla foto di rito. E forse è un bene, perché dentro il pavé è davvero sporco e infangato: stare in piedi è un’impresa da equilibristi, prendere la via esterna oltre le transenne già piazzate per i pro sarebbe un disonore. Mi piacerebbe raccontarvi che mentre percorrevamo quei 2 chilometri storici potevamo avvertire gli alberi che chinarsi verso di noi in segno di rispetto, ma direi una balla. Quel tratto l’ho percorso tutto con la sola preoccupazione di restare in piedi, e di evitare gli imbecilli che facevano i gradassi in Mtb con le loro ruotone e rischiavano di farti volare a gambe all’aria: l’unica nota fuori tono di tutta la Paris Roubaix versione Challenge. Poi a tre quarti del settore non resisto, mi fermo e scatto uno stupidissimo selfie: non si può sempre essere integerrimi. Trovo anche il modo di immortalare Leo che sopraggiunge alle spalle, regalandogli forse un’immagine unica.
La sfida di Arenberg, per la cronaca, se la aggiudica Gigi, senza alcun dubbio il più forte della compagnia. Io, che con altrettanta certezza sono l’anello debole, decido di avvantaggiarmi da solo dopo il secondo ristoro, ma con grande sorpresa non mi raggiungeranno più fino al terzo rifornimento. In quei 38 km di fuga solitaria incontro alcuni fra i tratti più densi di storia e gloria. Il più impegnativo è di sicuro il numero 10 di Mons-en-Pévèle, con i suoi 3km mai in piano e quasi tutti controvento. I burloni dell’organizzazione lo segnalano come un 4 stelle, ma sul sito ufficiale e per i professionisti ne conta ovviamente cinque. All’uscita, gli spettatori già piazzati per la gara del giorno dopo che incitano noi amatori mi sentono urlare un noto francesismo. Altri sono indicati come più facili, ma mentre sei sballottato ti ritrovi a pensare “e questo sarebbe solo un tre stelle???”.
Sarà la fatica che comincia a farsi sentire, ma che si interrompe momentaneamente con il sopraggiungere dell’ultimo ristoro. E’ lì che con tempismo invidiabile Leo si accorge di aver forato l’anteriore, accanto alla tavola imbandita e soprattutto all’assistenza: sarà per noi – e per gli amici Christian, Luigi, il “Brontolo” Riccardo e il funambolo Flavio che ci hanno accompagnato – l’unico contrattempo di una spedizione che in fin dei conti avevamo evidentemente preparato con molta cura. L’auto al seguito, guidata dall’insostituibile Dora, e riempita di ruote di riserva ha potuto viaggiare in lungo e largo senza problemi.
L’ultimo tratto, quello in cui si decide la corsa dei pro, ha come fulcro il Carrefour de l’Arbre, l’altro settore cronometrato che io associo istintivamente a Franco Ballerini, l’uomo che più di ogni altro è responsabile per la mia presenza in queste zone e che qui si è costruito le sue due vittorie (e anche la terza “scippata” da quel furbacchione di Duclos-Lassalle). Lo affrontiamo tutti insieme noi cinque, con le forze residue ridotte al lumicino, ed è Stefano che la spunta, approfittando lesto di un passaggio a vuoto della nostra locomotiva Gigi. Da lì al traguardo ci sono 13 km che scorrono via quasi senza accorgersene, se non fosse per gli ultimi due segmenti di pavé che però offrono vie di fuga laterali abbastanza agevoli.
Le tensioni si sciolgono e i sorrisi si allargano nella consapevolezza di un’impresa che cresce piano piano. Sono attimi che vorresti far durare il più possibile, nonostante la stanchezza e i dolori cha affiorano a volte dove meno te lo aspetti. Il traffico caotico di Roubaix lascia spazio all’ingresso nel velodromo più famoso del mondo. Sei tu, con il groppo alla gola dall’emozione, che puoi schierarti allineato ai compagni sul rettilineo d’arrivo per la più bella e attesa foto di rito, con quella scritta sullo fondo che non dimenticherai mai: “l’enfer du Nord mene au paradis”. Il paradiso dei ciclisti, certo, che oggi puoi dire di esserti guadagnato.
Gli attimi successivi all’arrivo scivolano via troppo in fretta: compare una bottiglia di champagne che avevo custodito segretamente per mesi e ci sono le meritatissime docce, anche queste le più famose del mondo con gli spogliatoi segnati dalle targhette dei vincitori della Roubaix. Tra i Coppi, Merckx, De Vlaeminck, Moser, Boonen e Cancellara scelgo ovviamente Ballerini, ma anche lì Roby è stato più lesto. Pazienza, aspetto il mio turno, del resto ho aspettato una vita la Roubaix… Dopo c’è ancora l’abbraccio con Dora e gli altri della spedizione, il ritorno alla Maison de Papidan dallo splendido nonno Daniel che non poteva non essere citato con la sua ospitalità e le sue colazioni. E restano tanti ricordi aggrovigliati nella mente che difficilmente riuscirò a riordinare. Avrò tempo per farlo, perché a Roubaix, come avevo giurato, non tornerò più. Forse…